Tra cura per il lavoro e lavoro di cura

di Bruno Bignami | Mercoledì 4 maggio









L'Osservatore Romano









Siamo a un bivio. Da una parte, la strada che abbiamo sin qui percorso: i lavoratori come parte di un ingranaggio e vittime sacrificali del profitto e di formazione inadeguata. Dall’altra, invece, la strada della cura, dove la sicurezza sul lavoro può diventare un investimento per il bene della società.


Quale strada scegliere? I dati Inail sono spietati: nel 2021 le morti sul lavoro sono state 1221, senza contare il sommerso dei lavoratori in nero e gli incidenti non denunciati. Non meno disastroso appare il 2022: le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail entro il mese di febbraio sono state 121.994, in aumento del 47,6% rispetto al primo bimestre dello scorso anno. Di queste, 114 si sono rivelate mortali, in crescita del 9,6% rispetto al primo bimestre 2021. In sostanza, si tratta di un trend che non accenna a diminuire.


La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro rende noto che gli infortuni e le malattie professionali sono anche un onere economico. Incidono sul Pil nazionale con una percentuale che va dal 3% ad oltre il 6%. Alla faccia di chi continua a considerare la sicurezza un costo!


Il paradosso si aggrava perché proprio nel periodo di boom dello smart working con meno presenze negli ambienti di lavoro e meno pericoli sulle strade, i casi di decessi non sono diminuiti. Cosa è successo? La condizione di tutela è venuta meno per quella cultura disumana che ritiene denaro buttato gli investimenti sulla sicurezza.


Contro questa logica perversa, la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro della Cei ha pubblicato il Messaggio per il 1° maggio: «La vera ricchezza sono le persone. Dal dramma delle morti sul lavoro alla cultura della cura». Le trasformazioni del lavoro, così determinanti nell’epoca del digitale e della rivoluzione tecnologica, non riescono purtroppo a scalfire la cultura dello sfruttamento e della precarizzazione. Non è un caso che gli incidenti si verificano nelle aziende che chiedono ai dipendenti cambi frequenti di mansione o che esternalizzano le attività più pericolose a cooperative di servizi che trascurano la formazione, pagano poco e costringono a ritmi lavorativi sempre più pesanti.


Quando i carichi sono inadeguati e le tutele sono minimizzate, l’esito scontato è l’aumento di tragedie e di vittime. Il lavoro da luogo di vita diviene esperienza di morte. A che serve contare le morti sul lavoro senza una presa di coscienza che tutto ciò ha responsabilità ben precise e si radica in una cultura dello scarto? È necessario un approccio integrale, in grado di prevenire le tragedie. Nella giusta direzione vanno gli investimenti sulla formazione dei lavoratori e sulla ricerca nelle nuove tecnologie, capaci di limitare all’uomo le mansioni più pesanti. Un buon contributo potrebbe venire dall’attività scolastica, se la sicurezza sul lavoro e l’educazione alla salute diventassero discipline inserite nei programmi curricolari di studio. Inoltre, è ancora troppo carente la vigilanza da parte delle istituzioni competenti: l’educazione e i controlli sono la base per una seria prevenzione.


Dunque, si tratta di mettere al centro le persone, in quello che Papa Francesco ha definito un «nuovo umanesimo del lavoro». Un 1° maggio che risvegli le coscienze a prendere sul serio l’esistenza concreta dei lavoratori e delle lavoratrici. Purtroppo, non ci scandalizza più nulla. Assistiamo impotenti a singoli casi di morte o di infortunio, senza renderci conto che a fondamento c’è una visione sbagliata del lavoro. Alla cultura dello scarto contribuisce anche la ricerca delle promozioni sottocosto nel carrello della spesa. Tutti sappiamo che dietro a prezzi fuori mercato ci sono spesso vite calpestate. Dovremmo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e agire di conseguenza.


Dove il lavoro non è riconosciuto, dove la dignità della persona è offesa, lì dobbiamo rispondere con la denuncia e il rifiuto. Ognuno è nelle condizioni di scegliere quando si reca al supermercato. In quel momento rafforziamo un modello economico oppure lo contestiamo.


È il tempo della consapevolezza e della responsabilità quotidiana. Solo così si può promuovere la centralità della persona, caposaldo della dottrina sociale della Chiesa.


La festa dei lavoratori 2022 è stata segnata dalle crisi in seguito alla pandemia e alla guerra. L’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia impatta fortemente sulla vita ordinaria. La crisi sanitaria e il conflitto in Ucraina hanno accresciuto le conseguenze della crisi socioeconomica a livello europeo e globale: categorie di lavoratori alla fame, disuguaglianze sociali sempre più grandi, ingiustizie nell’accesso ai vaccini, aumento spropositato della produzione e del mercato di armi, corsa all’accaparramento delle materie prime, controllo delle risorse energetiche e alimentari, crescita di incidenti sul lavoro...


Due categorie stanno pagando oltre misura la situazione odierna: i giovani e le donne. Un fenomeno di questi mesi è la fuga dal lavoro opprimente. Cresce, cioè, il numero di coloro che rassegnano le dimissioni per cercare, anche senza proposte alternative in tasca, attività più appaganti. Non è un fenomeno nuovo, ma negli ultimi mesi ha conosciuto una crescita esponenziale: in Italia, secondo i dati Inps, tra aprile e giugno 2021 c’è stato un aumento del 40%, che corrisponde all’85% in più rispetto al 2020. Il fenomeno è grave, se collocato nel quadro di un Paese che ha il tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa, un persistente mismatch tra domanda e offerta di competenze lavorative e la fuga di giovani laureati verso altri territori.


Tutto ciò fa pensare a un cambio di paradigma nel modo di pensarsi delle persone: la loro esperienza è vista all’interno di una prospettiva più ampia e non semplicemente come strumento nelle mani di qualcuno. Non conta solo ciò che si fa, ma anche il come! Certo, rimangono ancora sacche scandalose di sfruttamento lavorativo, cui sono sottoposte soprattutto le categorie più fragili, rappresentate dai poveri, dai disoccupati e dai migranti. La «guerra dei poveri» genera l’accettazione di forme di lavoro nero o sottopagato: nei cantieri o nella manodopera stagionale si muovono con disinvoltura corrotti senza scrupoli.


Anche la condizione lavorativa del mondo femminile appare in stand by. Normalmente, a parità di situazione lavorativa, la donna ha una retribuzione più bassa rispetto all’uomo: fatica di più a entrare e rimanere nel mondo del lavoro dovendo spesso scegliere tra carriera e famiglia. La pandemia ha penalizzato le donne costringendole insieme sia a compiti educativi (Dad inclusa) sia a lavorare in smart working. Le penalizzazioni di genere sono così radicate che è fin troppo facile giungere alla conclusione che la nostra non è una società per donne.


A ciò si aggiunga che talvolta — come ricorda il Messaggio dei vescovi — esse sono «ostaggi di un sistema che disincentiva la maternità e “punisce” la gravidanza col licenziamento». Anche qui viene alla luce un problema culturale in un contesto di inverno demografico. Non basta invocare le quote rosa, perché spesso non corrispondono alle oggettive competenze sul campo e rischiano di essere umilianti. Per usare uno slogan, dovremmo passare «dalle quote rosa a rose in quota», ossia dovremmo dare maggiore spazio alla cultura della cura di cui le donne sono portatrici sane. Lo vediamo anche nei reportage bellici televisivi: gli uomini combattono e le donne accudiscono i bambini e gli anziani. Senza una pervasività della cura tra le persone, non ci sarà alcuna vera innovazione sociale.


Per raggiungere questo traguardo bisogna imparare dalle donne. Quanto sarebbe stato rivoluzionario un 1° maggio con le donne in cattedra! In tempo di guerra e di pandemia, abbiamo bisogno di esercizi di cura. Una vera palestra per tutti.

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