di Francesco Gesualdi | Giovedì 18 novembre
Avvenire
Se ad occuparsene è anche il Fondo Monetario Internazionale, vuol dire che tutti si stan rendendo conto che il problema esiste ed è serio. Si tratta dell’aggiramento fiscale messo in atto dalle multinazionali minerarie che operano nei Paesi africani a sud del Sahel. Grosso modo una quindicina, se si escludono i produttori di petrolio.
Secondo i dati del 2018, dieci dei maggiori Paesi minerari del mondo si trovano in Africa subsahariana per un fatturato complessivo annuale stimato in 350 miliardi di dollari: cobalto e tantalio nella Repubblica democratica del Congo, diamanti in Botswana, oro in Liberia, Burkina Faso e Tanzania, bauxite in Guinea, rame in Zambia, platino in Sudafrica, uranio in Namibia. L’Africa contribuisce all’incirca al 30% della produzione mondiale di questi minerali, ma con l’avvento dell’auto elettrica e delle altre tecnologie utili a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, l’Africa diventerà importante anche per grafite e manganese di cui sono particolarmente ricchi Gabon, Ghana, Mozambico, Madagascar e Zimbabwe.
Complessivamente, i minerali contribuiscono al 10% del prodotto lordo dei 15 Paesi ad alta intensità mineraria, mentre contribuiscono al 50% delle loro esportazioni. Le vere protagoniste, tuttavia, sono le multinazionali che si occupano dell’estrazione.