di Andrea Grillo | Martedì 23 novembre
SettimanaNews
Che cosa significa affermare “la messa non è nostra”? Con questa espressione si suole indicare, correttamente, una “perdita di potere” sull’azione rituale. In questo, come è evidente, vi è molto di buono. È giusto, infatti, che nell’esperienza rituale della fede ci troviamo in una condizione di “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa”.
Come atto di “riconoscimento”, l’atto rituale non è mai un atto assolutamente creativo. E tuttavia, per essere atto rituale, la messa deve anche restare un atto relativamente creativo. Per questo motivo, nella affermazione “la messa non è nostra”, accanto al buon fondamento di un assunto ragionevole e dovuto, può insinuarsi una piccola e grande distorsione. Vediamo perché.
L’azione rituale dell’eucaristia è un atto di Cristo e della Chiesa. Quindi, allo stesso tempo, “non è” nostra ed “è” nostra. Se con nostra diciamo “della Chiesa” e se non identifichiamo la Chiesa in un “ente” affidato soltanto alla gestione gerarchica, ma capillarmente presente nel corpo ecclesiale, dotato dei munera regali, profetici e sacerdotali, dobbiamo ammettere che la messa è sempre anche “nostra”.
Questa titolarità “comune” dell’azione, che permette di pensare Dio e il suo popolo, Cristo e la sua Chiesa, come soggetti del rito, induce a rileggere con un occhio meno drastico tutti i codici espressivi della celebrazione. In ogni linguaggio della messa non agisce né solo Dio né solo il popolo, né solo Cristo né solo la Chiesa. Ma sempre, allo stesso tempo, gli uni e gli altri, insieme, concordemente, in una relazione qualificante.