Educare alla mitezza in tempo di guerra

di Ivo Lizzola | Martedì 29 marzo

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo in un tempo segnato da un vistoso incremento della distruttività, un tempo di terrorismi, un tempo di eventi tragici ed estremi. Siamo “in un tempo di guerra”, nel quale “l’aspetto ferino della guerra si è evoluto, tra l’altro da infanticidio differito a infanticidio effettivo ed attuale”.


Già da prima dell’11 settembre 2001 la guerra aveva subito preoccupanti metamorfosi, evolvendo verso le nuove ed estreme forme di questi ultimi anni. Ma, soprattutto, la guerra è entrata profondamente come “malattia della civiltà”, ormai penetrata in ogni dove nelle pieghe della nostra società, “malattia mentale” e mortale. Guerra individualistica e privatizzata; guerra assoluta.

 

Essere miti in tempo di guerra, “in un tempo di guerra come questo, dell’ultimo quindicennio, dopo la fine, ricca di brevi speranze, della guerra fredda, è difficile”, non è un “tema spirituale centrale della nostra vita di oggi. Un punto necessario di resistenza.”


L’educazione è una delle più importanti esperienze di alleanza tra le donne e gli uomini, tra le generazioni nelle quali “prende forma il tempo”, quello delle storie personali, delle storie familiari, della storia comune. È importante, allora, osservare con cura ciò che avviene nei luoghi educativi nell’incontro tra generi e generazioni, ciò che avviene nell’incontro tra le memorie, tra le diversità, tra le prefigurazioni di orizzonte futuro.

 

Soprattutto oggi, in un tempo di guerra, di freddo conflitto strisciante segnato da indifferenza e da durezza, quando pare inaridirsi e disperdersi la riserva della cura, della speranza, della tenerezza e della resistenza che l’educazione può rappresentare.

 

Nell’alleanza tra donne e uomini e tra generazioni si viene in presenza reciproca, si dice sé e si dice di sé, si è condotti a rivelarsi, esporsi e consegnarsi, in un movimento instauratore di senso. Si realizza così una preziosa riserva, una sorta di “scarto” rispetto alla cultura data, “depositata”, e alla vischiosità del presente e dell’immediato.


L’esperienza dell’incontro educativo può divenire un luogo di confusioni, anche di addestramento all’esercizio della forza: non si distingue più tra il chiedersi “che cosa devo fare di utile e giusto per me e i miei?” e il chiedersi “che cosa devo fare per essere buono e giusto?” Domande solo apparentemente simili: crinali sottili e profondi le separano.


Come sono separate ma vengono confuse le due domande “che valore ha quello che faccio?” e “chi sono, chi divento io che ho fatto (che sto facendo, che sto per fare) questo?”

 

Mitezza è sentire l’altro, attivare pensieri e gesti che lasciano essere, che chiedono di venire in presenza reciproca, “in verità e giustizia”. Tornando ad una attenzione non orientata, a uscire da vincoli di ruolo e dalle “ragioni forti”, a vedere oltre situazioni e gesti, a guardare nei moti originari e a immaginare orizzonti possibili.


Mitezza è capacità di ritrovarci in quest’”aura”, senza essere noi a “fare luce”, con la nostra intenzionalità, o il nostro giudizio sulle situazioni, sulle cose. Come fa a volte chi diagnostica, o struttura didattiche e interventi clinici, sciogliendo l’aura in nome di una buona intenzione o di una lucida insensibilità: quanti spazi affollati di solitudine e di pensiero paralizzato (“facciamo bene”, “siamo giusti”) si danno negli ospedali, nelle scuole, negli istituti assistenziali, oltre che nei tribunali e nelle Borse.

 

La mitezza cui educarci non è neppure una “virtù privata”, avvolta nel sentimentale ed elaborata come un filtro protettivo contro le potenziali aggressioni dell’altro, del mondo esterno. Essa ci mette, piuttosto, in contatto con il dolore e la gioia dell’altro, con il desiderio e l’attesa del mondo ridisegnandone i tratti.


Mitezza non è immedesimazione assillante, e neppure proiezione; non è solo simpatia, né compassione o condivisione: si concentra su ciò che avviene tra me e l’altro, cerca senso e attiva pratiche. Lo sguardo mite immagina (ci immagina), e non lascia tranquilli (non ci conferma, solo): chiede e attende. Promette pazienza e fedeltà, ma chiede di rispondere (anche rifiutando). È nella dinamica della fiducia e della dignità: queste che si instaurano nel riconoscere, emergono e si generano nella relazione.

 

Non è previsione, né realismo: è fedeltà alla realtà, alla sua verità tradita o offuscata, e per questo ancor più attesa. Spera l’insperabile, il mite: la conversione. E resta lieto, non intristisce. Sente la letizia francescana, come gli occhi dei bambini molto piccoli.


Il mite non si accontenta di registrare un presente (di diagnosticarlo, magari per comprenderlo), ma intende affrontarlo per trasformarlo, assumendo la dimensione del futuro più che del passato, della possibilità più che della necessità. Attendendo e chiamando a una autentica relazione reciproca, significativa per tutti i protagonisti dell’incontro che diviene, così, sempre evento co-educativo.

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