Violenza, politica, terrorismo

VIOLENZA, POLITICA, TERRORISMO

 

In un contesto storico come il nostro, in cui riemerge lo spettro della violenza come prassi politica, è di grandissima importanza rivolgerci al passato. In questo modo permettiamo ai nostri pensieri di reggersi su riflessioni già fatte da chi prima di noi ha dovuto affrontare il problema in questione. Nel 1982 ad un convegno organizzato dalle ACLI di Bergamo, vari autori affrontano il problema del terrorismo italiano da punti di vista e approcci differenti. Le relazioni del convegno sono state pubblicare dalle ACLI provinciali in una raccolta di saggi dal titolo Terrorismo, radici culturali e movimenti della società civile: i cristiani per l’annuncio del perdono e la costruzione della pace. Sebbene non si trattasse della versione di terrorismo presente oggigiorno, bensì di quello peculiare italiano della seconda metà dello scorso secolo, è di fondamentale importanza comprenderne le dinamiche violente, appartenenti intrinsecamente a «tutti i terrorismi» nelle loro diverse declinazioni.

 

Il primo capitolo è scritto da Giovanni Bianchi, Vincenzo Bonandrini, Ivo Lizzola e Maurizio Prezzati. Come punto di partenza nell’analisi che viene condotta è da rilevare il concetto di quelle che gli autori chiamano «facilità terroristiche». La prima di queste facilità è quella tramite la quale il terrorismo uccide. «Ideologicamente l’avversario viene percepito dal terrorista soltanto come un simbolo da eliminare». Quello che emerge da tale riflessione è l’assenza di qualsiasi – anche minimo – grado di empatia nei confronti della vittima, la cui umanità viene totalmente ignorata nel momento in cui il terrorista svolge la sua azione ideologica. La seconda facilità di cui ci parlano gli autori è quella che consiste nell’«abitudine diffusa di alcuni terroristi a ‘pentirsi’ dopo l’arresto». L’analisi condotta dalle ACLI in merito al fenomeno del terrorismo è riferita in particolare a quello di matrice marxista-leninista, il quale deve la sua esistenza a molteplici fattori. Gli autori si chiedono se i terroristi siano figli della crisi, oppure se costoro possano esistere anche in una società sana e meno contraddittoria. La risposta degli autori tende a considerare le emarginazioni, la povertà e la sofferenza come fattori sicuramente incisivi, ma non sufficienti, essi soltanto, a dare una giustificazione convincente alla nascita del fenomeno. «La crisi della politica e delle riforme viene colta come occasione, come  strumento utile per perseguire una linea strategica già determinata». Continuando su questa linea argomentativa, gli autori dicono che «L’atto terroristico  in questo quadro non è ‘ultimo gesto disperato’, ma pretende di essere lucido calcolo delle forze». In altre parole, un movimento terroristico deve necessariamente avere delle basi ideologiche e strutturate che guidino l’azione del movimento stesso, che nella sua linea generale è meditata e mai casuale.

 

Il secondo capitolo è scritto da Don Luigi Castellazzi, docente di psicologia presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Quello di Castellazzi è un approccio prima di tutto psicologico, che «cerca di mettere a fuoco le dinamiche psichiche e individuali soprattutto inconsce». Dopo aver portato avanti una riflessione sui concetti di pentimento e perdono, l’autore prosegue il testo con l’intento di individuare la causa del terrorismo degli anni ’70, il quale trova un terreno fertile in cui svilupparsi proprio nell’area della sinistra cattolica, i cui membri si sentono in colpa nei confronti della realtà ecclesiale e della storia della Chiesa nel mondo; tale senso di colpa non può che essere affrontato con un’azione di rinnovamento, caratterizzata da  «una commovente, anche se ossessiva, ricerca della salvezza individuale e collettiva ad ogni costo». Castellazzi continua con la sua diagnosi, affermando che «Di fronte a una realtà che resisteva alla potenza della fede e che non si piegava ai cambiamenti desiderati, ci fu un accumulo di angoscia. Il senso di impotenza e di frustrazione spinse a passare da una fede in ascolto della realtà a una fede che si imponeva ad essa». In questa prospettiva di psicologia della collettività la teoria marxista-leninista può essere vista come «il punto di riferimento ideale per l’instaurazione, per via politica, del nuovo regno di Dio». Compaiono così i semi del pensiero ideologico, che si caratterizza per essere riduttivistico, stereotipato, chiuso e ripetitivo. Castellazzi chiude la sua riflessione proponendosi l’interessante compito di tracciare il profilo del possibile terrorista, identificando tre aspetti principali. I possibili terroristi sono giovani, militanti e immaturi. Il primo punto si rifà a Piaget, secondo cui i giovani hanno quell’orientamento egocentrico determinato ad adattare il mondo a se stessi, e trovano negli schemi e nei codici idealistici il modo per farlo. Riguardo al secondo punto, l’autore dice che «Il militante per prima cosa tende alla semplificazione e cioè ad una visione manichea della realtà, divisa in buona e cattiva. Tale semplificazione è la premessa necessaria per giustificare la sua azione di militanza, che sarebbe messa in crisi se invece avesse una visione più complessa e completa della realtà». Infine, i possibili terroristi sono immaturi, nel senso che, secondo Castellazzi, «a questi soggetti è mancata l’esperienza positiva con la figura paterna, intesa come rappresentante della realtà, rispetto alla madre vissuta come rappresentante del piacere.

 

Il terzo capitolo è scritto da Don Sergio Colombo, docente di Teologia Morale presso il Seminario Vescovile di Bergamo di Redona. Il suo punto di vista è etico-teologico, e, come dice egli stesso, cercherà di esaminare il terrorismo attraverso «[…] un modo di pensare mediamente cristiano». La riflessione di Colombo parte da un interrogativo: «dobbiamo perdonare o punire?». La prima cosa da fare di fronte alla violenza insita nel terrorismo, è di «resistere a una tentazione di reazione istintiva; è di prendere una pausa, una distanza. E in questa distanzia inserire il giudizio, il tentativo di comprendere, la ricerca di senso di ciò che succede». Colombo si richiama direttamente alla vecchia ascetica, che affermava che «la prudenza c’è soltanto quando si dominano le passioni. E questi, ci insegnava il catechismo, si dominano con la temperanza e la forza. La capacità di “produrre” un giudizio pacato e forte, che fa dell’uomo qualcosa di più della sua reattività passionale e istintiva, viene a lui dalla capacità di essere un essere di ragione, di libertà, di senso […]».

Un argomento particolarmente interessante è poi quello della colpa, che può essere intesa come colpa individuale o come colpa sociale. «L’azione dell’uomo è legata alla realtà sociale come alla sua pelle […], l’azione dell’uomo emerge dalla società come frutto di una cultura, come reazione a un ambiente». E proprio a partire da questa considerazione ci si può collegare alla «caratteristica essenziale della morale, il cui senso […] ultimamente non è mai la condanna, ma la vocazione, il richiamo di un valore da rispettare, e per ciò il pentimento, la conversione e il cambiamento in direzione del più umano». Secondo Colombo la morale, benché necessaria per la conduzione della vita degli uomini, ha dei suoi limiti precisi, entro i quali non deve fare breccia. «Siccome produce anche forza e violenza la morale non può pretendere d’essere la sola regola della convivenza», ma «[…] deve lasciare spazio al diritto che controlla la forza con la forza e garantisce, secondo me, alla morale stessa lo spazio minimale del suo esercizio». Quindi, nella conclusione del capitolo l’autore ci illustra quale è il ruolo del cristiano: «Il cristiano deve portare il perdono in cui crede nel modo di vivere della città, senza scoraggiarsi. […] il cristiano assume tutta la fatica del diritto e della morale, con i loro limiti e i loro rischi».

 

Durante il convegno interviene anche Gian Gabriele Vertova del Centro Studi “La Porta”. Il professor Vertova individua tre problemi che hanno a che fare con la generazione politica del ’77 e i motivi che hanno portato alcuni giovani a scegliere la lotta armata. Questi sono: «quello dell’incapacità della società bergamasca a dare una risposta positiva alle domande emergenti, quello dell’impotenza delle istituzioni politiche ad offrire canali di partecipazione politica, anche conflittuale, quello della debolezza della Sinistra Bergamasca a proporre una credibile alternativa». Vertova inoltre riprende l’intervento di Castellazzi, ribaltando però la prospettiva sulle origini del terrorismo. E’ proprio perché le spinte conciliari, il femminismo e le istanze sessantottine «hanno avuto una tradizione storica insufficiente» e perché è stata «bloccata la speranza di una radicale e profonda trasformazione della società che molti sono ripiegati verso un qualunquismo e nel “riflusso” pochi hanno avuto la forza di continuare nell’impegno e taluni hanno scelto la variabile impazzita del terrorismo». Il terrorismo «va letto in un contesto di “delusione storica” rispetto agli esiti che pure erano stati creduti possibili» e il rischio dell’analisi di Castellazzi è che finisca per «mettere sotto accusa proprio la speranza, solo perché ha dato vita a delle variabili impazzite.» Gian Gabriele Vertova chiude il suo ragionamento parlando di perdono, auspicandosi che diventi da una prassi interpersonale a un “sacramento” praticato anche a livello sociale. Un perdono da allargare anche ai terroristi, in ottica di riconciliazione, a cui si può dire: «Abbiamo sbagliato, ma voi avete sbagliato enormemente e invece che speranza avete seminato morte. Se volete si può riprendere il cammino insieme. È ancora possibile fare politica in modo nuovo, lavorare per una società diversa». Nel successivo intervento Giulio Mauri allarga la riflessione alla “violenza” più in generale, specificando come la condanna della violenza debba passare anche da quella forma «più sottile, magari più accorta, certamente più diffusa, che sta dentro al vivere quotidiano, nei rapporti che sociali che viviamo». Non solo, una delle preoccupazioni più grosse è quella, dopo il periodo del terrorismo, di una regressione verso il personale, in cui «il conflitto nelle fasi di cambiamento [è sempre] in modo più sottile rimandato, quasi non fosse un elemento motore per cambiare la realtà, non cogliendo che non è il conflitto l’elemento negativo, ma la sua gestione». Dentro una tendenza della società che accentra sempre di più i problemi decisionali e in cui si diffondono logiche di tipo oligarchico, il conflitto e la diffusione del potere in senso democratico vengono visti con sospetto. In realtà però esso è «sintesi delle istanze più avanzate ed anche identità più compiute».

 

Per Emanuela Plebani di Gioventù Aclista «il terrorismo è segno di un clima, di una dimensione di vita basata sulla lotta, sulla divisione, sulla violenza» che è presente anche a livello internazionale in cui «lo stato più sviluppato opprime quello più povero». Uno dei problemi individuati tra i giovani è che la violenza la si «sperimenta quotidianamente nella propria vita, ma si ha paura a parlarne, a cercare di capirla». Così quando Gioventù Aclista va nei paesi a fare «corsi base sulla pace, i ragazzi associano subito questo termine alla tranquillità e alla ricerca di armonia, ma «ad un certo punto [di] questo cammino, sembra quasi che il costruire la pace implichi dimenticare i conflitti, il far finta che non siano mai esistiti. Noi pensiamo invece che sia molto importante prendere coscienza di come questa violenza attraversa ogni momento della nostra vita, da quelli di rapporto con noi stessi e con le altre persone, a quelli più politici e sociali». Attraverso un approccio di tipo educativo è possibile non perdersi dentro le contraddizioni, e ciò permette di «scoprire la solidarietà». Ma per uscire dalla violenza serve anche costruire una politica che «si riavvicini ai bisogni delle persone, che sappia mediarli con gli elementi di realtà» e riscoprire il valore della mondialità, che permetta di «cogliere il legame tra il piccolo ambiente in cui viviamo, la propria nazione e tutta la famiglia umana».

 

Il documento si conclude, dopo le risposte di don Castellazzi e don Sergio Colombo agli intervenuti, con una relazione di Giovanni Bianchi, a nome della Presidenza Regionale ACLI Lombardia, che spazia dal campo dell’indagine filosofica a quella di tipo economico-sociologica. Nel suo intervento Perché il terrorismo ci riguarda, Bianchi analizza in primo luogo gli effetti della complessificazione della società e della diffusione della violenza. La società oggi (come allora) non solo è cambiata rispetto al passato, ma resta in uno stato di continua mutazione. Condizione, questa, che ci sfida quotidianamente a riflettere e a rimanere al passo con questi cambiamenti, senza però farci sopraffare dal processo. È importante della riflessione di Bianchi la puntualizzazione di un effetto di questi cambiamenti, ovvero una sempre maggior esposizione alla violenza, che passa per diversi canali (come le immagini, od il linguaggio). Oggi le connessioni e la velocità dell’informazione, ci mettono sempre più in contatto con fenomeni violenti nel mondo, paradossalmente normalizzandoli e abituandoci alla loro presenza. Ed in questo contesto, è sempre più semplice individuare “gli altri”, diversi da noi per pensiero, per cultura, o per bandiera, come nemici oggettivi, con cui è difficile instaurare un dialogo.

 

In un mondo presente dove la guerra torna ad essere vicina a noi, in cui il dialogo politico è sempre più violento e distaccato, la domanda posta da Giovanni Bianchi resta particolarmente attuale: cosa significa fare politica in questo contesto?

 

I fenomeni che attraversano oggi la nostra democrazia richiedono, ancora una volta, di ripensare radicalmente la politica. Una rifondazione, questa, però che «non si configura come un modo nuovo di fare politica, ma come una autentica ed effettiva politica nuova». E ancora oggi, per rispondere a questa domanda, sono centrali le tre tematiche individuate da Giovanni Bianchi: violenza, conflitto, diritto. A partire dagli spunti di Bianchi dunque, riflettiamo sul significato della violenza, la quale sicuramente porta in se delle istanze oppresse, ma che è anzitutto indice di riduzione di complessità, che abbatte il dialogo e danneggia la democrazia. Riflettiamo sul conflitto, che solo una cultura ed una politica della pace possono trasformare in una dinamica costruttiva, ma che non deve essere escluso a priori come invece vogliono fare alcune culture pacifiste (presenti anche nel mondo cattolico). Riflettiamo sul diritto, inteso come il «rendersi conto, rappresentare, dare possibilità politiche anche ad elementi nuovi».

 

Decenni fa (come noi oggi), Giovanni Bianchi credeva nell’importanza di valori quali la pace, la solidarietà e la gratuità (propri delle ACLI) e della pratica del volontariato, come elementi che si possono inserire in queste dinamiche, per abbatterle e portare ad una nuova politica. Valori, questi, applicabili nelle piccole storie e nelle esperienze del quotidiano, che possono portare a cambiamenti ben più grandi. Il futuro presidente nazionale chiude la sua riflessione sostenendo che questa «produzione (e ricezione) di nuovi valori vissuti con atteggiamento di laicità» si configura sia nel «dare il giusto peso alle cose (quindi ai valori ed alla politica)» sia nel «superamento degli schemi delle ideologie armate», cioè della «convenzione bellica che genera la nostra politica». Anche oggi, riflettere in questi termini e applicare lo sguardo che ci chiede Giovanni Bianchi nel quotidiano è forse un primo passo per ricostruire un lessico e una prassi politica non violenta. Una politica di pace che sappia tuttavia abitare la conflittualità sociale e dare risposte concrete alle persone che, come singoli e movimento, incrociamo sul nostro cammino associativo e di cristiani.

 

 

Fonti:

 

Aa.vv., Ipotesi (in frammenti) sul terrorismo, in Terrorismo, radici culturali e movimenti della società civile: i cristiani per l’annuncio del perdono e la costruzione della pace.

L. Castellazzi, La problematica del terrorismo: una lettura in prospettiva psicologica.

S. Colombo, Una sfida al perdono cristiano.

G.Vertova, Intervento.

G.Mauri, Intervento.

G. Bianchi, Perché il terrorismo ci riguarda.

 

 

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