PIANGERE SU GERUSALEMME
Cari amici,
La memoria storica di Israele sa bene che cosa vuol dire la strage di bambini, è il punto più alto della vendetta: è stata la sua invettiva contro Babilonia (“Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra”), il suo ricordo della distruzione di Ninive, “la città sanguinaria” (“Anche i suoi bambini furono sfracellati”), l’oracolo su Samaria (“Periranno di spada, saranno sfracellati i bambini”), ed è il miraggio di una vittoria che, attraverso i piccoli, si proietta sul futuro.
E questo è ora l’orrore che soffre Israele (e il mondo con esso) dopo il racconto dei militari israeliani su ciò che hanno trovato nel kibbutz di Kfar Aza devastato da Hamas. E la conclusione non può essere che una sola: mai più la vendetta, mai più la vittoria nella soppressione dell’altro. Facciamo allora come Gesù di Nazaret, dinanzi allo scempio che dilania la Palestina, diciamolo noi suoi discepoli, anche se non piace ai laici, ai non credenti e ai post-teisti che si nomini il figlio di Dio in un giudizio politico: ma se non ora, quando? Apriamo dunque il Vangelo e leggiamo che Gesù, ebreo di Galilea, salendo a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: “Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!”.
Così oggi, come allora Gerusalemme non ha capito dove fosse la sua pace, ha creduto che fosse nella vittoria, mentre la guerra ora caduta su di lei è proprio il salario della vittoria. Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a “non forzare il Messia”, e Netaniahu aveva istituito un “governo di annessione ed esproprio”, come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto. A Israele non era bastato vincere tornando nella terra dei padri. Non era bastato occupare la Cisgiordania, non era bastato riaprire i kibbutz che ne erano stati espulsi, non era bastato aprire le terre occupate ai coloni, non era bastato demolire le case dei palestinesi e segregarli oltre muri e checkpoint, non era bastato salire a sfidarli sulla spianata delle Moschee, non era bastato sigillare le frontiere di Gaza e colpirla di embargo, come ora l’affama, le toglie l’acqua e la luce, e l’ONU per questo protesta.
Israele voleva ormai anche negare, come ha fatto il suo ministro delle finanze Bezalel Smotrich in piena Europa, a Parigi, che i palestinesi esistano: «non esiste un “popolo palestinese”», aveva detto, si tratterebbe di una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita. Non ha capito Israele ciò che Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, tanto che le religioni indiane dicono che la vittoria dei buoni (siano gli Dei, o Dio o i credenti) non porta mai alla pace. Mai! Perciò Israele piange ora sulla vittoria e il rischio è che voglia vincere ancora, e procacciandosi sicurezze ancora maggiori, e devastanti per gli altri, quando il primo a piangere, nella sua tomba, è il premier Rabin, che al suo popolo voleva dare e stava per dare un’altra pace, fondata sulla riconciliazione e sul rispetto l’uno del volto dell’altro (secondo l’invito dell’ebreo Levinas), israeliani e palestinesi insieme: ma prima che la pace fiorisse, e perché non fiorisse, fu abbattuto da fuoco amico. Ha scritto Ali Rashid, palestinese a Roma: “Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica... Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita. Ma questa catena di morte è inarrestabile? Eppure una volta eravamo fratelli.” Noi dunque piangiamo con Israele su Gerusalemme, la città divisa che pur unisce due popoli nel dolore, e li abbracciamo nello stesso amore. Ma non così possono piangere quanti hanno concorso e concorrono alle sciagure di oggi, e non solo in Israele, facendo propria e promulgando senza remore l’ideologia della vittoria, incurante della giustizia e tributaria solo della forza.