Un Paese che resta ancora prigioniero del suo passato

di Ernesto Galli della Loggia | venerdì 14 maggio 2021

 

 

 

Corriere della Sera

 

 

 

Riusciamo a immaginare che nell’Italia del 1980, nell’Italia, tanto per ricordare, in cui entrava in vigore la riforma sanitaria e si svolgeva la «marcia dei quarantamila», potesse accendersi una lunga discussione pubblica sulla stampa come nel mondo politico e intellettuale, chessò, circa le malefatte dello Stato Maggiore e le complicità di Badoglio nell’inverno-primavera del 1940, per aver assecondato la decisione di Mussolini di gettare il Paese nella catastrofe della Seconda guerra mondiale? È immaginabile che potesse accadere una cosa del genere? Mi pare molto difficile. E invece ci sembra del tutto ovvio che nell’Italia del 2021, nell’Italia di oggi, si torni ancora una volta a dibattere del terrorismo.

 

Si torni a dibattere dei suoi mille retroscena, delle sue oscure complicità, dei suoi mille aspetti non chiariti: si torni a discutere per l’appunto di quanto è accaduto più o meno quarant’anni fa o ancora prima. Capisco le buone, le ottime, ragioni per farlo. Che stanno non solo nelle complicità e nei retroscena detti sopra ma specialmente nell’esigenza, morale ancor prima che giudiziaria, di risarcire le vittime, di rendere giustizia a chi soffrì la perdita di mariti, di padri, di figli, assassinati nel modo più indifferente e brutale. Nell’esigenza di rendere loro giustizia dando innanzi tutto un nome non solo agli esecutori ma anche ai mandanti dei delitti in questione.

Ma i delitti di cui stiamo parlando, i delitti del terrorismo, non furono un fatto privato. Non c’è bisogno di scomodare la categoria della guerra civile per affermare che essi furono un fatto anche eminentemente pubblico, rivolti contro la comunità nazionale e il suo ordinamento politico-costituzionale. Proprio per questo è lecito chiedersi: fino a quando ha un senso che tale comunità mantenga viva la sua attenzione più fervida, discuta appassionatamente, indaghi, s’interroghi e quindi si divida su quei delitti e il vasto contesto in cui avvennero? Oggi sono a un dipresso quarant’anni e ne discutiamo ancora. Lo faremo pure tra dieci anni? tra venti? Fino a quando?

Si dice: ma ci sono complicità cruciali e mandanti occulti di cui non sappiamo ancora nulla. Se anche fosse vero — e in parte lo sarà senz’altro, come del resto è ovvio in queste faccende: è possibile però, mi chiedo, che dopo tanto tempo e tante indagini, di autentici grandi burattinai non ne sia venuto fuori neppure uno da mandare in galera? — se anche fosse vero, dicevo, il discorso che sto facendo non riguarda in alcun modo un’eventuale amnistia. Per i reati non ancora prescritti la magistratura, se ha degli elementi, continui pure le sue indagini. Quello che m’interessa e di cui sto dicendo è altra cosa. Riguarda il discorso pubblico del Paese e l’immagine di questo: l’immagine della sua psicologia e della sua mentalità, della sua cultura diffusa, della sua retorica, da tutto quanto viene fuori dall’ interminabile rimestare che ormai da mezzo secolo veniamo facendo di quella lontana tragedia tra memorie, ricostruzioni, illazioni, riflessioni, rimpianti, evocazioni e rievocazioni di ogni tipo. In una estenuata immersione nel passato che sembra non conoscere mai fine, tra obbligatori sdegni di Stato e molte lacrime di coccodrillo.

Eppure il passato, per vivere, bisogna a un certo punto gettarselo alle spalle. Non dimenticarlo ma neppure restarne prigionieri. Semplicemente metterlo da un canto per trarne, quando serve, la necessaria ispirazione: magari, se possibile, nella solitudine delle coscienze anziché negli «special» televisivi.

Nel dopoguerra l’Italia fu capace di rialzarsi, di rimboccarsi le maniche e di compiere la spettacolare rinascita di cui ancora in qualche modo godiamo i frutti perché innanzi tutto le riuscì proprio questo: di sciogliersi dai lacci del proprio recente passato. Fu ciò che si propose l’amnistia per le nefandezze commesse durante la guerra civile promossa da Togliatti nell’accordo generale. Un’amnistia che lungi dal rappresentare un vile gesto di rinuncia fu viceversa un saggio atto di governo: al prezzo di un certo numero di ingiustizie, è vero, ma in vista di un vantaggio superiore. Quello appunto di esorcizzare il potere ricattatorio e paralizzante del passato terribile che avevamo attraversato.

Per vent’anni il Paese si limitò a rievocare le vicende trascorse nelle occasioni di prammatica, nelle date del calendario civile della nazione, ma nella sua pur aspra quotidianità politica si occupò d’altro e guardò avanti raggiungendo i traguardi che sappiamo. Proprio quello che invece l’Italia odierna non sembra in grado di fare: e forse proprio perciò siamo da decenni un Paese bloccato, che sembra quasi ipnotizzato dalle proprie impossibilità. Un Paese incapace di muoversi e di progredire, di superare gli ostacoli, di pensare al nuovo, perché la sua testa e i suoi occhi, l’attenzione del suo discorso pubblico, sono sempre pronti a rivolgersi ossessivamente all’indietro: a piazza Fontana, a Sindona, a Ustica, alla strage di Stato, alle Brigate Rosse, alla P2, a Mani Pulite. E così via, così via, nell’elenco praticamente infinito di un passato che non passa.