Rimettere al centro la sfida del lavoro. Perché il primo maggio non sia solo retorica

di Daniele Rocchetti | giovedì 29 aprile 2021

 

 

 

Santalessandro.org

 

 

 

Quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza.

Nelle parole di papa Francesco c’è un metodo che andrebbe custodito con attenzione. Che esige, prima di ogni azione, una riflessione, un discernimento lucido, realistico, del presente. Un invito a ritornare a pensare. Perché tornare a pensare è la prima sfida a cui siamo chiamati. Serve tempo per pensare il tempo. Perché il tempo in cui viviamo – e che lo tsunami del Covid ha accellerato –  sta riscrivendo radicalmente le istruzioni per vivere e le istruzioni del vivere insieme e mettendo in crisi – anche se spesso ci ostiniamo a non vederlo – istituzioni, associazioni e chiese. Dunque, prima ancora che dire “cosa fare” sarebbe utile ritornare a pensare. Perché, altrimenti, è un girare a vuoto sterile. Servono dunque nuove mappe per decifrare il presente. Anche sul tema del lavoro. Soprattutto, direi, sul tema del lavoro

Cambiare le mappe che abbiamo tra le mani

Quello che è certo è che le mappe del Novecento non bastano più. Basti solo un elemento, tra i molti: pur rimanendo un Paese a vocazione manifatturiera, l’Italia sta sempre più progredendo nel processo di terziarizzazione dell’economia: la quota di occupati del terziario e dei servizi è passata dal 60% del 1990 al 76% del 2019, raggiungendo i livelli della Germania mentre gli occupati nell’industria sono appena il 20 per cento. E i servizi arrivano a pesare l’84,5% dell’occupazione femminile complessiva. E’ dunque finita la grande fabbrica, è finita la rappresentazione del lavoro come l’abbiamo a lungo conosciuta. Pensiamo ai nuovi lavori, all’avvento delle nuove tecnologie e al sottobosco complesso che rende molti giovani precari e lavoratori “fragili o non stabili”. Spesso rassegnati a buste paga più leggere, minori protezioni, diritti non pienamente soddisfatti. Non occorre certo essere luddisti ma neanche tra coloro che immaginano un automatico “sol dell’avvenir”. Restano i grandi problemi di sempre: chi tutela i non tutelati? Chi garantisce i non garantiti? Tutto questo accade in una stagione culturale che tende a negare il lavoro. È un rifiuto politico favorito dalla supina accettazione dell’ideologia neoliberista, secondo cui figura centrale sarebbe oggi quella del cittadino-consumatore e non più quella del cittadino-lavoratore.  Questo perché il capitale, che pure è frutto del patrimonio storico del lavoro umano, ha oggi bisogno per la sua valorizzazione molto più dei consumatori che non dei lavoratori. Eppure il lavoro, a dispetto della rimozione pubblica, resta decisivo per la vita di ciascuno.

Ripensare il lavoro dopo il Covid

Dentro tutto questo, la pandemia ha ulteriormente cambiato e aggravato il quadro di riferimento.  Una crisi profonda che ha portato molti a sentire sulla propria pelle, e per un lungo periodo, precarietà e incertezza. Lo stesso smartworking a cui per necessità molti si sono dovuti adeguare (se erano nelle condizioni per renderlo possibile)  ha mostrato il valore ma anche i limiti, anche solo per avere dilatato  oltremodo l’orario lavorativo. Per questo è urgente immaginare un “nuovo inizio”. Perché la crisi ha aperto di fronte a noi due strade: o riportare il mondo nella situazione (insostenibile a più livelli) nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo. In fondo, hanno ragione Chiara e Mauro Magatti quando sostengono che crisi pandemica è una lente per leggere il nostro tempo, un telescopio per guardare più lontano. Non solo una sventura che interrompe una corsa da rimettere il prima possibile sui binari, ma una frattura che è anche una rivelazione, di limiti e insieme di possibilità. L’occasione per un avvenire inedito anziché per un divenire inerziale.

Una Repubblica fondata sul lavoro

Che fare dunque? Come stare da credenti dentro tutto questo? E’  vero che per molti oggi, specie per i giovani, il tema del lavoro è anzitutto quello di un posto di lavoro, possibilmente stabile.  Ma quando pensiamo al lavoro dobbiamo avere il coraggio di guardare anche più in profondità. Il lavoro serve a costruire la vita sociale, la cultura, l’ambiente, la libertà delle persone, le speranze di una comunità. È finalizzato  al “possedere la terra” e a migliorarla, renderla abitabile, bella e degna degli uomini. Il lavoro è la principale via attraverso la quale ciascuno di noi contribuisce a far crescere la società, a rapportarsi con gli altri aiutandoli e facendosi aiutare. È la via attraverso la quale costruiamo la società di oggi e di domani, determiniamo l’ambiente (e la cultura) in cui vivranno i nostri figli. Per  i credenti (e forse per tutti gli uomini di speranza, al di là delle confessioni religiose) è  il modo con il quale contribuiamo alla creazione del mondo e del futuro. Da questo punto di vista dunque il tema del lavoro (così inteso) è davvero la questione fondamentale della nostra vita personale e sociale, perfino della democrazia. Del resto la nostra Costituzione dice proprio “fondata sul lavoro”, perché i costituenti hanno ritenuto che tutto il Paese si riconoscesse in questa idea dell’ homo faber, del civis faber…  anzi di una comunità di uomini che lavorano, cioè costruiscono insieme il mondo in cui vivono oggi e vivranno domani, insieme con i loro figli e con quanti verranno a bussare alla loro porta.  Quindi sostenere con forza la centralità del lavoro, la sua riscoperta e valorizzazione,  prendere coscienza del suo valore antropologico  è  una battaglia decisiva. Potremo infatti affrontare e vincere le gravi difficoltà del nostro Paese, dell’Europa e del mondo (dell’ economia e del diritto, del dialogo tra i popoli, dell’etica familiare e sociale…) solo con una rinnovata, condivisa e forte idea del lavoro come impegno a costruire la città dell’uomo con giustizia, amicizia, efficienza, intelligenza, fraternità e speranza per tutti. 

E’ una grande sfida. Per stare ancora una volta da credenti che non dimenticano di essere uomini. Anzi, uomini proprio perché credenti.

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