Per i nuovi preti, servono «scuole per seminare parole»

di Antonio Mazzi

 

 

 

Corriere della Sera

 

 

 

Credo siano arrivati i tempi per domandarci se non valga la pena di smetterla di allevare giovani che vogliono diventare preti, in serre chiamate seminari. Il periodo sempre più interessante e misterioso che incominciano a scandagliare un po’ di più, cioè l’adolescenza, esige come contenitori ideali ambienti normali, liberi da paratie e non soffocati da ritualità cementificate. Non ci sono molti modi per preparare, coltivare, interpretare, formare corpi e menti, sogni e conflitti, ribellioni e poesie, sensi e sentimenti, disseminati tra i giorni e le notti dei nostri sedicenni. Però, chiuderli in seminario, vuol dire alzare sponde agli oceani e mettere l’infinito dentro pochi metri quadrati.

L’adolescenza è la vera nascita di ciascuno di noi e chi la attraversa male, può solo portarsi dentro una interminabile tempesta primaverile. I giovani, poi, che sentono dentro di loro ulteriori vibrazioni, impulsi, echi e risuoni tanto affascinanti quanto contrastanti, ancora di più esigono territori vergini. Racconta il Vangelo: «Il seminatore uscì a seminare e avvenne che parte del seme cadde lungo il sentiero, altra cadde su suolo roccioso, tra le spine, altra finalmente cadde in terra buona… chi ha orecchi per intendere, intenda».

Pare dal Vangelo che il metodo più giusto per seminare sia andare nel campo e seminare parole. La vocazione è una parola seminata, accolta, germogliata perché ha trovato il terreno giusto. Noi abbiamo fatto tutto il contrario: inventato strutture, scuole, direzioni spirituali, tecniche e segregazioni. Per il Vangelo la profezia, la fede, è sentiero, cammino, povertà, incontri, parole incompiute e parole compiute. I dodici, Cristo, li ha preparati così. Le vicende più naturali sono diventate le vicende più soprannaturali. Difatti, Cristo, dopo aver raccontato una parabola semplicissima, interpretabile da tutti, ha richiamato in parte i suoi per spiegarla. Anch’io la prima volta che ho letto quella parabola mi sono domandato cosa ci fosse da spiegare. Invece, li ha presi in disparte, soli, per rileggere come fece sempre, alcuni passaggi strategici: il seminatore semina la parola che poi è necessario ascoltare, accogliere e radicare dentro il terreno buono. Cosa c’era da «intendere»? Questo seminatore identifica il seme con la parola e il terreno come «seno» che partorirà il trenta, sessanta, cento. E questo non l’abbiamo ancora inteso.

L’uomo appare come il pastore del creato, il prete come il seminatore di parole creative. Dio è diventato contadino della storia, seminatore di parole. Dice il teologo José Tolentino Mendonça che «il linguaggio è il teatro di Dio. La parola designa ad un tempo indicazioni e apparizioni, prose radicate in un territorio di duplicità: da un lato come aura, puro respiro, sintomo, rivelazione; dall’altro come evocazione, profezia, sogno».

Secondo Erasmo il testo biblico non si rifà ad una lingua sola, ma è pieno di lingue. È un serbatoio, un pozzo, una sorgente. I testi evangelici vanno sempre accolti per eccesso. È qui che i preti devono trovare le vie fondamentali per entrare nella pastorale delle anime e non per le sbandate umilianti che leggiamo. Il prete di oggi non può esaurire la sua attività nel distribuire i sacramenti e nel predicare i vari catechismi. Possono farlo altri, diaconi e catechisti vari. Ieri, forse, avevamo bisogno di preti più ministri dei vari sacramenti che seminatori. Ma oggi, urge un ritorno al Vangelo, alla ribellione verso le fedi accademiche.

Mi spavento pensando che forse il nostro modo di essere cattolici ha soffocato le vere scelte cristiane, evangeliche. Perciò, lasciamo in fretta tutto ciò che è coltivato fuori dai sentieri e torniamo alle parole profetiche e generative. Il laico Beppe Giacobbe ci sta dicendo che è finito il tempo delle profezie. La profezia è il futuro nutrito dal passato e dal presente ed è l’eternità. È lo squarcio sulla fine, la luce sull’esito e al contempo è il piano, la direzione. Essa è la fine dei tempi e, intanto, nel tempo, la strada verso la libertà, nel Mar Rosso aperto al passaggio d’Israele, nel deserto delle migrazioni. La profezia è l’equilibrio tra la conoscenza e il mistero, è la precarietà della condizione umana ed è la certezza oltre la congiuntura, la bussola nella tormenta.

Negli ultimi tempi la crisi della profezia si è fatta totale, assorbita dai computer, dalla corsa all’avere e dalla fede cieca nella ragione, nella produzione. La caduta dentro i filamenti dei computer ha dirottato anche le nostre preparazioni più verso efficienze che verso la Kénosis, l’umiliazione, la misericordia, la povertà. Viene da Cacciari l’invito al grande contrattacco dell’impotenza contro l’onnipotenza. Basta una parola autenticamente evangelica per annullare una intera laurea teologica. E per «preparare» questo tipo di preti, di cui il mondo ha tremendamente bisogno, apriamo «scuole di parola», capaci «di commuovere le viscere, di trovare i radicamenti della Provvidenza nei nostri territori avvelenati». Non fatemi citare Platone, che nel Timeo diceva: «Questo mondo è un essere vivente, dotato di anima, di intelligenza, generato ad opera della Provvidenza di Dio».

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