di Alessandro Zaccuri | sabato 19 dicembre
Avvenire
Ci eravamo messi d’accordo per vederci a Vicenza, dopo di che abbiamo esitato, rimandato, quasi confermato. Alla fine ci siamo arresi al principio di precauzione, ripiegando su una lunga videochiamata online. Anziché lo scenario sontuoso della Basilica palladiana, è la casa in cui Mariapia Veladiano vive a fare da sfondo. La scrittrice parla da un angolo della campagna veneta. Fuori dalla stanza in cui si trova il suo studio si immagina un paesaggio non troppo diverso da quello in cui è nata e cresciuta.
«Sì – conferma –, sono molto grata alle mie origini. Intendiamoci, nella civiltà contadina di mezzo secolo fa non c’era nulla di bucolico, nulla di idealizzabile a buon mercato. Era un’esistenza povera, perfino dura: di tutto questo so che rimane una traccia in me. La cognizione che la nostra vita dipende dalla terra, ecco che cosa mi resta della mia infanzia. Oggi per i giovani è più difficile capirlo, perché c’è l’impressione che tutto possa essere comprato e rimpiazzato velocemente, di norma nel giro di venti minuti. Manca la consapevolezza di un tempo lungo, condiviso. Fin da bambina, invece, ho conosciuto la sensazione degli oggetti che passano di mano da una generazione all’altra. E gli alberi, la saggezza degli alberi: qualcuno li ha piantati per te, tu sei chiamato a piantarne altri per qualcuno che neppure conosci. La fede è in primo luogo questa fiducia nel tempo».
Non è una biografia prevedibile, quella di Mariapia Veladiano. Esordiente tardiva, sul crinale dei cinquant’anni (il suo primo romanzo, La vita accanto, uscì nel 2011 ed entrò subito nella cinquina del premio Strega), ha sempre scritto molto per sé stessa: «All’inizio erano piccole favole che non lasciavo leggere a nessuno – dice –. Non volevo espormi, era un’ipotesi che mi intimidiva. A differenza di altri generi, come la saggistica, la narrativa comporta un coinvolgimento maggiore. Si finisce sempre per raccontare qualcosa di sé e questo, per molto tempo, mi è sembrato inconcepibile».