Lehman Brothers, William Shakespeare e i danni dell'azzardo morale

di Vittorio Pelligra | Martedì 23 novembre

 

 

 

 

IlSole24Ore

 

 

 

 

Cosa possiamo dire di aver imparato dalla crisi dei mutui subprime che ha travolto a partire dagli anni 2007-2008 inizialmente gli Stati Uniti e poi l'Europa diffondendosi, in seguito, su tutti i mercati finanziari internazionali? È molto difficile dirlo, perché le lezioni apprese variano significativamente in base alla narrazione che della stessa crisi viene fatta.

 

Quella forse più diffusa è incentrata sull'idea della «tempesta perfetta» che colpisce l'economia globale contro la quale gli ingegneri finanziari delle varie istituzioni pubbliche e private lottano disperatamente per mantenere a galla la barca flagellata dalle onde degli eventi prendendo decisioni su «quali inondazioni deviare, quali argini rafforzare e quali paratoie aprire», come commenta ironicamente l'economista Vincent Reinhart nel suo «A Year of Living Dangerously: The Management of the Financial Crisis in 2008» (Journal of Economic Perspectives 25, 2011, pp. 71–90).

 

I salvataggi delle banche «too big too fail»

 

Una narrazione probabilmente più accurata partirebbe dal modo in cui gli stessi ingegneri finanziari e segnatamente il Segretario del Tesoro, il Presidente della Federal Reserve e il Presidente della Federal Reserve Bank di New York, hanno deciso di affrontare, nel marzo del 2008, la crisi della banca d'affari Bear Stearns. La banca, non un colosso «too big to fail», era agonizzante da tempo e prossima alla bancarotta.

 

Le autorità finanziarie leggono dietro quell'eventuale fallimento il rischio di una crisi sistemica che avrebbe potuto trascinare a fondo molte altre banche così decidono di intervenire a protezione dei creditori. Nella percezione dei mercati, da quel momento, anche le banche di medie dimensioni diventano «too big to fail« e così aumentano le aspettative di futuri salvataggi.

 

 

 

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