DON MILANI. LA SCUOLA E LA PASSIONE PER LA PAROLA
di Daniele Rocchetti | @labarcaeilmare
C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi anche da morti, perchè per loro parlano persone e libri, situazioni e drammi, immagini e sentimenti. Tra quest’ultimi trova senz’altro posto la figura di don Lorenzo Milani – di cui quest’anno ricordiamo il centenario della nascita (1923-2023) – la cui parola è più viva che mai. Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e convegni, promossi per ricordarne la figura. Certo, fare memoria di don Lorenzo, significa chiederci – senza sconti – se è rimasto ancora qualcosa di un uomo che, da vivo come da morto, è segno di contraddizione. D’altronde, qualunque sia il giudizio sulla vita e sull’opera del prete fiorentino è impossibile rimanere neutrali. Bisogna scegliere da che parte stare: occorre schierarsi.
Un profeta che inquieta
Tensione, rigore: sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani che si avverte tutte le volte che si deve parlare o scrivere di lui. E’ scomodo perché è un personaggio che misura le nostre immaturità e i nostri ritardi, i compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato mediazioni, gli opportunismi che abbiamo definito sempre più necessari e opportuni.
Leggendo le sue lettere, ci si rende conto che la sua “scomodità” proviene da una dedizione radicale, consumata senza un attimo di sosta fino alla morte. Così scrive in una lettera a don Ezio Palombo:
Ponete in alto il cuore vostro e fate che sia come una fiaccola che arde. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà, di nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il Padre!) e la pietà, la mansuetudine, il compromesso paterni, la tolleranza illuminata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima..” Ed ancora: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia Sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo.
Un uomo figlio del suo tempo, carico di profezia
Per capire qualche cosa dell’opera di don Lorenzo Milani occorra partire subito dalle contraddizioni. Figlio di madre ebrea, Alice Weiss, e poi prete cattolico; agnostico fino a vent’anni e testimone dell’Assoluto per il resto della sua vita; colto, coltissimo, eppure gli ultimi tredici anni della sua vita li ha passati in un borgo di montagna nemmeno segnato sulla carta geografica e da morto, su sue precise volontà, è stato messo nella cassa vestito con i paramenti sacerdotali e gli scarponi di montagna.
Credo però che occorra andare oltre, perché don Lorenzo non è stato solo un uomo di contraddizione ma anche un uomo carico di profezia. Distinguere l’una dall’altra è importante per capire cosa oggi possa rimanere e valere. E’ un lavoro di discernimento che evita ogni forma di reducismo e ha il coraggio di indicare vie possibili di emancipazione.
Quando, il 27 maggio del 1923, Lorenzo nasce, si trova in una famiglia con un padre, laureato in chimica, ricco possidente, filosofo e poeta che sapeva parlare e scrivere in sei lingue, e una madre, colta, amante di buone letture. Lorenzo è nipote di quel Domenico Comparetti, illustre grecista, filologo, conoscitore di diciannove lingue, i cui testi sono ancora oggi usati in alcune università italiane.
Come i figli dei ricchi del tempo, fino alle medie non frequenta le scuole pubbliche ma studia a casa con professori pagati dalla famiglia. Nel frattempo, per sfuggire alla crescente voglia di razzismo che sinistramente iniziava a circolare in Europa, padre e madre, benchè non credenti, decidono di sposarsi in chiesa e di battezzare i figli.
La famiglia si trasferisce a Milano e Lorenzo frequenta il Berchet, il liceo classico: è insofferente alla scuola e dopo aver sostenuto gli esami per la maturità, promosso per un soffio, si dà alla pittura, iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti di Brera. La ricerca dell’essenziale, l’incontro con l’arte sacra, lo avviano, con voracità, verso quella strada di ricerca dell’Assoluto che lo segnerà per tutta la vita.