Cile: fine di una democrazia
di Gilberto Bonalumi
Il testo integrale dell'articolo apparso su L'Eco di Bergamo lunedì 11 settembre 2023, in occasione dell'anniversario dei 50 anni dal golpe di Pinochet
Un pomeriggio di settembre; è il giorno 11. Un vortice di dispacci approssimativi corre sulle telescriventi: sono datati Buenos Aires e si riferiscono a Santiago; c’è un colpo di Stato in Cile. L’altalena di conferme e di smentite continua sino a tarda sera, poi la notizia data per certa: Allende è morto, il palazzo della Moneda semidistrutto, una giunta militare ha schiacciato il governo costituzionale. In poche ore, si consumava dunque la tragedia cilena. Colpi di Stato e giunte militari erano in quell’epoca un binomio che si ripresentava con allarmante frequenza nella storia politica sudamericana, ma la tradizione democratica cilena si ergeva come un sipario a difesa dei timori, dei sospetti e delle preoccupazioni degli uomini liberi.
La fine delle illusioni
I fatti del settembre 1973 venivano a stracciare le illusioni: non era un golpe che si sovrapponeva ad un golpe, i militari travolgevano le libertà che avevano portato al governo del Paese il rappresentante dei partiti della sinistra uniti. Errori, incertezze, contraddizioni di quel governo e della opposizione democristiana non potevano in alcun modo giustificare il piano del colpo di forza architettato altrove e che si era avvalso delle èlites militare in loco.
Il candidato della DC Radomiro Tomic alle elezioni del quattro settembre 1970 non raccoglie che il 27,8% dei voti contro il candidato di Unidad Popular Allende con il 36,3% mentre la destra di Alessandri guadagna il 34,9%. Era chiaro che il grosso dei voti moderati si era riversato sul candidato conservatore. L’alta e la media borghesia che avevano contribuito al successo elettorale di Frei nel 1964, non si fidavano più del candidato democristiano il cui programma aveva troppe assonanze con quello di Allende. Il contesto in cui si svolse la campagna elettorale tendeva a radicalizzare lo scontro politico tra due personaggi, tra due blocchi, quello conservatore e quello “rivoluzionario”. Già nella primavera dell’anno precedente si erano avuti episodi che denunciavano inquietudine nelle file dell’esercito: il 21 novembre 1969 il generale Viaux fece ammutinare il reggimento Tacna. Un anno dopo, nel delicato periodo di intermezzo tra l’elezione popolare di Allende e la sua nomina parlamentare alla presidenza della Repubblica, il generale Viaux tornerà alla ribalta: sarà l’ispiratore del rapimento, conclusosi con l’assassinio del comandante in capo dell’esercito, generale René Schneider, responsabile agli occhi dei militari dalle vocazioni golpiste (ancora in ombra) di non aver ostacolato l’accesso alla suprema guida del Paese di un uomo di fede marxista.
L’elezione di Allende in Parlamento avviene due giorni dopo l’assassinio del generale Schneider. Votano a favore, oltre i deputati e senatori dei partiti di Unidad Popular, quelli della Democrazia Cristiana. Allende ottiene 153 voti; Alessandri 35. I parlamentari del Pdc sono 75: sono voti determinanti. Le trattative tra Pdc e Up per l’elezioni di Allende e l’avvio di un compromesso politico necessario perché il governo, privo di una maggioranza parlamentare, potesse operare su una base sufficientemente ampia di consensi, non furono facili: a causa anche della varietà di atteggiamenti sia nella coalizione governativa ma anche nella dialettica interna al Pdc. Venne trovata un’intesa rispettando la volontà dela maggioranza dell’elettorato e il governo avrebbe inserito nella costituzione lo “statuto delle garanzie democratiche” preteso dal Pdc. A Santiago del Cile era in corso un esperimento politico frutto di una libera scelta; per circa tre anni si era snodata una vicenda sociale che fra profonde contraddizioni aveva liberato e dato vigore a forze che nel muoversi a favore o contro tale esperienza non avevano bruciato totalmente la fede che Allende riponeva in possibilità legali e democratiche di profondi mutamenti del suo Paese, che alla vigilia del golpe avevano ancora uno spazio per un confronto duro ma libertario. Ma niente fu possibile a fronte di forze interne e internazionali che non accettavano nessun cambiamento né nella legge né senza legge sollecitando masse emarginate da qualsiasi processo di sviluppo a ricorrere a scorciatoie per imporre mutamenti che spesso non arrivano o costano prezzi elevatissimi. Si umiliò un popolo che si era imposto in America Latina per la vivacità che si era dato nella lotta politica per uscire da un atavico sottosviluppo condizionato dal triangolo capitalismo – povertà – democrazia. Alcuni dati di quel periodo; il 10% dei cileni controllava il 60% del reddito nazionale; l’entrata annuale pro capite oscillava sui 200€; prima della riforma agraria iniziata dal governo democristiano preceduto da Frei il 3% della popolazione possedeva l’80% delle terre coltivabili, due terzi dei bambini inferiori ai tre anni era tarato fisicamente e culturalmente per denutrizione, la moneta cilena si è svalutata cinquemila volte negli ultimi 40 anni; in questo Paese dalla geografia pazza oltre alle grandi miniere di rame esistono risorse idroelettriche per fornire energia a sé stesso e all’intera Argentina, mentre allora nella città di Santiago veniva tolta a rotazione nei vari quartieri l’energia elettrica.
I dati del sottosviluppo
Questi sono i dati drammatici di una crisi nel sottosviluppo sulla quale in modo diverso operarono dal 1964 al 1970 il primo governo Dc dell’America latina e successivamente fino al 1973 il governo socialista di Allende. Frei terminò il suo mandato in tono minore rispetto alle speranze che aveva offerto con lo slogan della campagna presidenziale “rivoluzione nella libertà” ma certamente gli va riconosciuto che aprì una breccia importante che con la riforma agraria e con la cilenizzazione del rame aprì una breccia importante per sostituire quelle minoranze capitalistiche che governavano il Cile. Con lui va ricordata l’azione in politica estera operata dal suo ministro degli Esteri, Gabriel Valdes, che con il socialista Lagos condusse la vincente campagna referendaria del no promuovendo il patto andino per resistere all’espansionismo brasiliano e alzò la voce contro la gratuita invasione dei marines statunitensi nella repubblica di Santo Domingo nel 1967 dimostrando quella volontà di cambiamento senza con questo sottostare e farsi coinvolgere dalla stagione guevarista.
Queste descrizioni tengono presenti i diversi schieramenti, le diverse alternative ideologiche, i programmi e l’azione da svolgere, la candidatura di Allende aveva molti punti in comune con quella di Tomic che nel convincere i suoi colleghi a scegliere in Parlamento quella presidenza terminò il suo intervento così: “quando se gana (vince) con la derecha es la derecha che gana (vince)”. Queste scarne valutazioni ci sembrano importanti per dimostrare due cose: 1) l’illusione di coloro che operando per un “Golpe bianco” pensavano di utilizzare militari per rovesciare Allende salvando sostanzialmente un quadro istituzionale a garanzia del vecchio assetto di potere; al contrario il golpe si pone come obiettivo di distruzione dell’intero sistema politico. Memorabile una allocuzione di Pinochet: morirò io e il mio successore e non ci saranno elezioni. 2) quella giunta militare cercò di giustificare la sua rozza e pesante repressione con una storica finalità, distruggere lo Stato liberale e le istituzioni democratiche che avevano permesso l’esperienza del governo Dc e l’ascesa per via elettorale di un governo socialista. Da questo punto di vista l’11 settembre registrò non solo la sconfitta di Unidad Popular ma dell’intero sistema delle forze politiche.
Questo dei cinquant’anni non va confinato dentro un esercizio di una memoria storica. Serve un’analisi sul golpe ma una altrettanto sulle sue conseguenze per meglio considerare come è andata in porto la lotta alla dittatura associando quelli che nel 1973 stavano sul lato opposto per defenestrare al secondo referendum del no Pinochet dalla guida del Cile. Giustamente si mette sotto la lente d’ingrandimento quella tragica data dell’11 settembre che pone fine ad una democrazia e che colloca quella vicenda in significative posizioni delle altre crisi ed eventi internazionali nel corso di quegli anni della Guerra Fredda anche se privi di relazioni dirette tra loro. C’è un’altra data di cui si parla e di cui si scrive poco, quella del 9 settembre, quando Allende rinunciò alla convocazione di un plebiscito capace di moderare tensioni sociali e politiche che si erano andate fortemente a polarizzarsi perché erano evaporate quelle intese che lo avevano portato alla presidenza della Repubblica. Vanamente il suo ministro degli Interni Carlos Briones discusse con i leaders dei partiti, con la Chiesa cattolica, con le forze sindacali e imprenditoriali ma i risultati furono deludenti. In parallelo al disordine politico si affianca anche quello militare con reciproche invasioni di campo.
La parata militare
Viene presa la decisione di abbattere quel governo prima della tradizionale e imponente parata militare del 19 settembre per non esprimere come forze armate la loro realtà. Un comitato di generali nel pianificare il golpe cercarono di tener fuori il loro collega Pinochet dalle fasi operative illudendosi che poteva esistere la possibilità di attuarlo senza alterare l’ordine istituzionale. Come spesso succede nelle grandi crisi emerse quella figura shakesperiana, Caliban, che negli anni divenne il simbolo della natura selvaggia dell’uomo; che sarà successivamente ampiamente lamentata.
Come raccontare un processo politico così lungo e complesso come la transizione democratica cilena ad un pubblico come quello italiano che nel confronto politico tra Moro e Berlinguer seguì con grande interesse e solidarietà le vicende cilene, cercando persino di trarre una lezione valida per l’Italia da ciò che accadeva in quel Paese. Tutto questo è stato alcuni mesi fa riattualizzato in contenuti ed emozioni dalla visita del nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricordando nella sede della nostra ambasciata quella che è stata una delle più belle pagine della diplomazia italiana su come accolsero centinaia di rifugiati facendoli uscire da quel duro periodo di dittatura. Bella quella immagine dove il nostro presidente deposita una rosa rossa sullo stelo di Lumi Videla che gli uomini di Pinochet, dopo averla torturata fino alla morte, la gettarono nel giardino della nostra ambasciata cercando di mettere un’ombra su come i rifugiati convivevano tra di loro.
Ci fu un intreccio di relazioni molto intense tra dirigenti ed esponenti dei maggiori partiti italiani e cileni che appartenevano alle grandi famiglie internazionali: l’unione mondiale Dc, l’Internazionale socialista e i comunisti con i partiti ideologicamente più affini tra cui il Pci italiano. Non è un caso che tali partiti avessero gli stessi nomi e le stesse matrici culturali sia in Italia che in Cile: la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, quello comunista. Aldilà delle peculiarità di ciascun Paese ho potuto constatare che i dirigenti di quei partiti avevano gli stessi riferimenti culturali: Jacques Maritain, Luigi Sturzo, Emmanuel Mounier per i democristiani, Norberto Bobbio, Antonio Gramsci, Willy Brandt per la sinistra riformista e quindi parlavano un linguaggio comune che permetteva la reciproca comprensione: questo divenne oggettivamente importante almeno per il periodo dal 1970 al 1990. In quegli anni il gruppo degli Inti Illimani si tornava casualmente in Italia per una tournèe quando avvenne il colpo di Stato. Erano venuti per far conoscere la musica andina e perorare la causa di un Cile democratico trasformandosi nel simbolo di un Cile oppresso e la loro musica divenne la colonna sonora che accompagnò tante manifestazioni sia in Europa che in tante altre parti del mondo. Per merito delle Acli bergamasche e della loro rassegna Molte Fedi il gruppo storico si esibirà domenica 17 settembre alle ore 21.00 presso il Teatro Serassi di Villa d’Almè (biglietti disponibili qui).
La crisi che esplode con una forza inedita a partire dalla manifestazione popolare del 18 ottobre 2019, dunque, era stata a lungo e più volte annunciata. La decisione di aumentare il costo dei biglietti della metropolitana è solo una delle scintille che fanno esplodere la rabbia sociale. Un’altra è la “geniale” misura dell’Esecutivo e del Potere giudiziario di contrastare la corruzione con l’organizzazione di corsi intensivi di etica per imprenditori e funzionari pubblici corrotti. Il fatto che due grandi evasori fiscali per milioni di dollari se la cavassero con una condanna a quattro anni di carcere ma con il beneficio della libertà vigilata, con una multa equivalente al 50% del valore delle imposte evase e, appunto, con un corso obbligatorio di etica, è vissuta come una vera e propria provocazione.
Accanto ai giovani protagonisti dei primi atti di protesta scendono nelle piazze e per le strade milioni di persone che contestano le varie forme della grande disuguaglianza economica e sociale, gli abusi, i privilegi, la corruzione della classe politica e imprenditoriale tutta, senza alcuna distinzione di segno. La cittadinanza chiede un cambio radicale delle politiche economiche, sociali e culturali del governo e una nuova Costituzione. Le protesta è interclassista: accanto ai giovani studenti universitari e delle scuole secondarie che ne rappresentano il motore, figli della classe media, si ritrovano gli abitanti delle periferie urbane e rurali; gli esponenti dei popoli indigeni si mescolano con donne e uomini di tutte le età e appartenenze sociali e con i pensionati che chiedono giustizia e dignità per i loro figli, nipoti e pronipoti. Nessuna bandiera di partito o di una qualche organizzazione sociale colora le manifestazioni.
La rabbia generalizzata contro le élites economiche e politiche scuote tutto il paese e fa sì che una massa incredibile di persone occupino le piazze e le strade della capitale e delle città di provincia quotidianamente. L’allegria, la grande energia e forza che caratterizzano le manifestazioni pacifiche sono però offuscate da atti di vandalismo ampi e brutali come la distruzione di molte stazioni della metropolitana, gli assalti ai supermercati, gli incendi di edifici importanti, la devastazione di vari esercizi commerciali e di diversi luoghi pubblici. Le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate da alcuni esponenti dell’Esercito e dai Carabinieri rendono il quadro ancora più drammatico.
Questa esplosione di rabbia e violenza prende di sorpresa, per la sua forza e gravità, non solo il governo, a cominciare dal presidente della Repubblica Sebastián Piñera, espressione di una coalizione di partiti della destra, che solo qualche giorno prima aveva dichiarato che il Cile era un’oasi nella regione latinoamericana, ma anche i partiti di opposizione, le organizzazioni sociali, l’opinione pubblica nazionale e internazionale, i singoli cittadini. Com’è possibile che in Cile abbia preso forma una protesta così violenta? Che cosa vuole la gente in un paese che per quasi tre decadi è stato considerato un modello di sviluppo economico e sociale per l’intera regione latinoamericana? Sono queste le domande che si pongono analisti, politici, imprenditori sconcertati e che vengono riproposte quotidianamente sui giornali. La classe politica, di fronte a una quotidiana mobilitazione cittadina che non sembra aver fine, risulta impreparata, incapace di capire, imbrigliata in tentativi assai maldestri di dare una qualche risposta credibile alle pressanti richieste che gli vengono rivolte.
Il Cile è un buon punto di osservazione per riflettere sulle dinamiche politiche che caratterizzano il presente latinoamericano perché, ancora una volta, esso funziona come laboratorio che permette di capire, con maggiore chiarezza, ciò che accade negli altri paesi della regione.
Le tensioni politiche, economiche e sociali accumulatesi durante i lunghi anni della transizione politica e del cosiddetto “consolidamento democratico” ed esplose con forza inedita a partire dall’ottobre 2019 con le proteste e le manifestazioni di piazza, non soltanto hanno reso evidente la crisi del sistema neoliberale e neoliberista, abilmente tenuto in piedi grazie a una sorta di “politica degli accordi” tra i partiti del centro-destra e quelli di centro-sinistra, ma, frantumando l’apparente equilibrio che sembrava caratterizzare la vita del paese, hanno fatto riemergere tutte le contraddizioni di antica data che segnano la sua storia repubblicana. E il processo in atto per l’elaborazione di una nuova Costituzione che possa finalmente mandare in soffitta quella voluta da Pinochet nel 1980 e tuttora vigente, non fa che esacerbare tali contraddizioni, nel quadro di una crisi economica e sociale aggravata anche dalle conseguenze della pandemia.
Alle ultime presidenziali nonostante il fatto che durante la campagna elettorale i consensi nei confronti del Partito repubblicano fossero cresciuti rapidamente, nessuno si aspettava che al primo turno, il 21 novembre 2021, Kast, con il 27,91% dei voti, risultasse il primo eletto tra i sette candidati alla presidenza della Repubblica, mentre Gabriel Boric, raccogliesse il 25,82% dei consensi posizionandosi al secondo posto.
Gabriel Boric, anche in ragione dei giovani anni, dell’agilità con cui articola la radicalità dei suoi principi cresciuti al riparo da qualsiasi burocrazia di partito è capace, nella campagna elettorale per il secondo turno di limare il proprio programma nella misura necessaria ad assicurarsi il sostegno convinto e attivo di socialisti e democristiani. Vale a dire dei due pilastri della Concertación, che da anni costituivano il bersaglio delle sue critiche e di tutta la sinistra alternativa, a sua volta da quelli accusata di pericoloso avventurismo.
Con il 55,8% dei suffragi Gabriel Boric viene eletto presidente della Repubblica mentre il candidato di estrema destra che si rifà a Pinochet Kast ottiene il 44,1% dei suffragi. È la prima volta nella storia del paese che il candidato con il numero di suffragi più alti al primo turno viene sconfitto al secondo.
José Antonio Kast dimostra eleganza e abilità politica non soltanto nel riconoscere immediatamente i risultati elettorali ma nel recarsi presso il comando di Boric per congratularsi personalmente e per incassare i ringraziamenti cordiali del presidente appena eletto.
La prudenza del giovane presidente della Repubblica, insediatosi formalmente nel marzo 2022 e i suoi tentativi di controllare sia la frammentarietà delle forze politiche che hanno permesso la sua elezione, sia le tensioni interne alla coalizione di governo, non pare siano sufficienti per avviare, senza troppi ostacoli, la realizzazione di alcune delle promesse fatte in campagna elettorale. Il consenso di cui godeva nei primissimi mesi di governo si erode con una certa rapidità e, a partire dalla seconda metà del 2022, si attesta su livelli inferiori al 30%. Le complesse vicende legate alla elaborazione di un testo da parte della Convenzione Costituente, il dilagare della criminalità e del traffico di droga rendono complesso lo scenario politico del paese e creano una grande inquietudine, dentro e fuori il paese.
Tra molte altre questioni due, di carattere politico, destano particolare preoccupazione: la prima riguarda la capacità del governo di guidare una coalizione di partiti che non concordano nella valutazione degli ultimi tre decenni e differiscono su aspetti cruciali come il modello economico di riferimento. Una seconda questione riguarda gli attuali 22 partiti politici presenti in Parlamento che rendono particolarmente ardua l’attività legislativa e non pare siano in grado di riconquistare la fiducia dei cittadini e sostenere il nuovo processo costituzionale.
Come si vede il dibattito in Cile su questi avvenimenti vede Pinochet non totalmente condannato in tutta la sua estensione: nei recenti sondaggi non c’è una visione consensuale di quello che successe e un terzo della popolazione diche che quell’11 settembre 1973 Pinochet liberò il Cile dal marxismo. Questo è il problema che sta dentro questa commemorazione dei cinquant’anni: in realtà non siamo andati avanti, al contrario abbiamo retrocesso e oggi i pinochettisti si difendono con tutta impudenza. Guardando il mondo da fuori a partire da Trump è importante parlare autoritariamente. Trump ha sdoganato che l’autoritarismo non è un equivoco e si possono dire brutalità che sono accettabili. E in questo senso stiamo tornando indietro. Fortunatamente l’attuale presidente del Cile Boric definisce senza indugi che Pinochet fu un dittatore essenzialmente antidemocratico il cui governo uccise, torturò, esiliò e fece scomparire chi la pensava diversamente. Nel finale della sua presidenza emerse il suo profilo di corrotto e che fece di tutto per evadere dai meccanismi della giustizia. Per questo dico che siamo di fronte ad una rottura culturale e per questo se avessimo parlato molto tempo addietro di questi argomenti l’immagine di Pinochet apparirebbe diversamente.